lunedì 11 gennaio 2021

Il vecchio servo, racconto integrale di Grazia Deledda

Il brano che segue è tratto da "Ferro e fuoco", raccolta di racconti di Grazia Deledda (Nuoro, 1871 – Roma, 1936), scrittrice insignita del Premio Nobel per la letteratura nel 1926.




               Il vecchio servo

 

— Basile, ti deruberanno.

— No, babbo Ara, non mi deruberanno; — babbo grande caro, mandatemi, — supplicava il piccolo Basilio, accarezzando il nonno.

— Va bene, ma non tirarmi la barba: tu sai che la barba si tira solo ai caproni. Io ti manderò, ma senti, Basilio, tu sai che mamma Ara è stretta (avara) come il pugno di un morto. Se ti derubano, mamma Ara mi sgriderà, ed io ti bastonerò come un cane.

— Non mi deruberanno, ecco, ve lo dico io, babbo grande, — ripeté Basilio, con una serietà che faceva ridere —

— Eh, non basta che lo dica tu! Vedremo.

Il ragazzetto si mise a saltare per la gioia, spronando e frustando un cavallo immaginario: poi si avvicinò ancora al nonno seduto all’ombra d’una quercia, e gli si appoggiò sulla spalla. Formavano un bellissimo gruppo: Basile, coi suoi occhi neri lucenti come more, i lunghi capelli rossicci e la giacca di pelle, pareva un piccolo S. Giovanni: il nonno, che ancora conservava la barba rossiccia, e aveva gli occhi neri lucenti, vestiva di pelo come un vecchio eremita.

E come in certe vignette bibliche, un lungo cane, sdraiato davanti alla capanna, vigilava il gregge pascolando; un corvo addomesticato correva di tanto in tanto a beccare le mosche che si posavano sul cane, una farfalla rossastra volava dalla capanna alla quercia. Il verde pino dormiva sotto il gran sole di maggio; dalle alte erbe sorgevano altissimi fiori gialli e violetti, che a Basilio, quando si sdraiava sull’erba, pareva toccassero il cielo: attraverso le quercie apparivano lontananze azzurre, campi indorati dall’orzo maturo, montagne rosseggianti per la fioritura del musco.

— Basile, — disse il nonno, — va e chiama Sidru. Di che devo parlargli.

Il ragazzetto s’allontanò saltellando. Il servo non tardò ad obbedire, ma s’avvicinò a passi lenti. Era anch’egli vecchio, vecchio quanto il padrone: sbarbato e senza denti, coi capelli bianchi divisi sulla fronte, pareva una donna vecchia travestita da uomo.

— Senti, — disse babbo Ara, — da domani manderemo l’entrata con Basile; è tempo che anche il pulcino si renda utile.

Il servo spalancò gli occhi, e la stizza gli accese il sangue. Ma era troppo vecchio per arrossire, e troppo furbo per tradirsi.

«Ecco» pensò «io non ho più denti, ma sono ancora un peccatore; ogni sera, allorché rientro in paese col prodotto del gregge, prima di giungere alla casa del mio padrone faccio tappa davanti alla casa della mia “amica” alla quale regalo un po’ di latte e di formaggio. Poca roba, che a lei però, poveretta, sembra molta. Ogni anno, per Pasqua, io vado a confessarmi, e prometto di emendarmi, ma finora non ho potuto. Ecco che ora mi toccherà di emendarmi per forza.»

— Che dici, vecchia volpe? — gridò il padrone.

— Basile è troppo piccolo, lo deruberanno.

— Eh, non rompermi le gambe, ora! Ti dispiace perché non puoi far tappa dalla tua “amica”? — disse il vecchio Ara.

Ma il servo era abituato a sentirsi rinfacciare ogni momento il suo peccato, e rispose pazientemente: — Fa come vuoi, allora, padrone mio: io me ne lavo le mani. Ma se accade qualche disgrazia al fanciullo la responsabilità sarà tua.

E volse le spalle. Il corvo gli svolazzò attorno, gli si posò sul braccio e lo guardò fisso coi suoi occhi neri misteriosi.

«Sì, è finita» pensava il vecchio tristemente: ma il padrone lo richiamò:

— Senti, vecchia volpe; tu lo seguirai da lontano, almeno per qualche tempo.

— Ah, ed è così che si renderà utile il pulcino, come tu dici? Facendo trottare a piedi un povero vecchio?

— Tu sta zitto, asino! Se non ti garba cercati servizio altrove.

— Sì, bravo! Dove lo trovo il servizio, ora? Nell’ovile del diavolo?

— Sidru, rognoso, non rompermi le gambe!

— No, padrone; le gambe te le romperà la morte con la sua falce.

E dopo queste, padrone e servo si prodigarono molte altre insolenze; ma senza farne gran caso. Usavano quasi tutti i giorni discutere così.

Verso il tramonto Sidru sellò il piccolo cavallo, al quale un nemico del padrone aveva mozzato le orecchie, e alla sella legò la bisaccia di lana grigia, entro la quale stavan le forme di legno col cacio fresco coperto di foglie d’asfodelo, e la ricotta e il recipiente del latte.

Poi Sidru aiutò il piccolo padrone a montare sul cavallo, e lo seguì, in distanza, trascinando il suo bastone sull’erba. Il sole già senza raggi calava dietro le montagne rosse coperte di veli argentei; l’erba e gli alti fiori trasparenti si curvavano alquanto, come vinti dal sonno: nuvole di insetti ronzavano sulle siepi, amandosi liberamente.

Il vecchio servo camminava svelto e rapido come un cane; qualche volta però doveva correre per non perdere di vista Basile.

«Che siate maledetti» pensava «tutti maledetti! Dopo che vi ho servito per quarant’anni mi trattate così: cane e niente altro che cane. Ah, se non vi avessi voluto bene!»

Cammina e cammina, padroncino e servo arrivarono al paese: era già sera; la luna nuova illuminava con crepuscolo verdognolo le casette nere del villaggio.

Sidru lasciò che il fanciullo s’avviasse alla casa degli Ara, ed egli entrò dalla sua “amica”.

Pareva un cane frustato, ma “l’amica”, una donna anziana che aveva un figlio discolo, lo accolse benevolmente e lo confortò.

— Siamo amici da vent’anni, — ella disse, — e non è per un po’ di latte e di cacio fresco che io ti voglio bene.

— Fra giorni ti porterò un agnello, — promise tuttavia il servo.

E i due vecchi amanti si lasciarono più amici di prima. Per rassicurare la vecchia padrona Sidru credé opportuno lasciarsi vedere. Non l’avesse mai fatto! Basile diventò livido e si mise a urlare come un piccolo dannato. — Tu mi vieni dietro, vecchia volpe? — gridò, ripetendo le ingiurie del nonno. — Perché? Sono forse una lepre che mi si debba inseguire? Ti caccio via io, capisci? Vattene via, vattene via, cércati altro servizio.

— Tu caccia via le pulci, piccola rana velenosa, — rispose tranquillamente il servo. — Padrona mia, datemi da cenare; me lo merito.

La vecchia paesana, alta e grassa, con un profilo da matrona romana, porse al vecchio il canestro del pane e gli fece cenno di tacere perché il “pulcino” non si arrabbiasse oltre.

E perché il “pulcino” non si arrabbiasse oltre, i padroni decisero che Sidru continuasse a vigilarlo, sì, ma non rientrasse a casa né si lasciasse in alcun modo scorgere da Basile.

Non tutti i giorni il fanciullo pretendeva di tornare in paese, e non sempre il nonno esaudiva il suo desiderio; ma quando ciò avveniva, il “pulcino” non dimenticava di voltarsi ogni tanto, e una sera scorse in lontananza il servo.

Cieco di collera, volse il cavallo, andò incontro a Sidru e quando gli fu vicino sollevò il piede per dargli un calcio sul viso.

Il vecchio fece appena a tempo a scansarsi: lagrime di rabbia e di dolore gl’inumidirono gli occhi.

— Perché, ma perché mi vieni appresso? — gridava il piccolo prepotente. — Ho bisogno di cani, io?

Sidru ebbe un’idea bizzarra: sollevò il bastone e mutando voce gridò: — Ohé, con chi parli, tu, moscherino? Chi sei tu? Io non ti conosco.

Basile, che non era intelligente quanto prepotente, restò alquanto perplesso: guardò il cappotto del servo, la sua berretta, il suo bastone. Poi disse: — Vecchio sdentato, e non sei il mio servo tu?

— Il tuo servo? Un corno! Perché ci rassomigliamo? Io non sono servo, sono padrone. Se non mi conosci, ti faccio sapere che mi chiamo Sebastiano Marou.

— Va là, va là, — disse Basile, tirando le briglie al cavallo che s’era messo a pascolare. — Tu sei Sidru; io non mi inganno. Vattene, e se è Babbo grande che ti manda, digli che non ho bisogno d’essere vigilato. Vattene o mi arrabbio davvero… — E non si mosse finché Sidru non finse di ritornare verso l’ovile.

Il giochetto continuò parecchi giorni; ma oramai il vecchio servo non ne poteva più.

«I miei padroni sono stati sempre matti» pensava.

«Matti e prepotenti; ma ora diventano insopportabili. Prima hanno rovinato la loro figliuola, allevandola come una figliuola di re e dandole tutti i vizi; perciò fece la fine che fece: sposò un’immondezza, un ubriacone, che la fece morir di dolore. Ora è la volta del “pulcino”. Lasciatelo un po’ crescere, dategliele tutte vinte, e vedrete dove andrà a finire. Misero me che sono capitato in questa famiglia. Il peggio è che mi ci sono come innestato, in questa famiglia» pensò poi sospirando. «Sì, innestato; se andrò via, mi parrà d’essere come un ramo divelto dal tronco. San Basilio mio, aiutatemi voi.»

Egli sospirò ancora e scosse la testa: «Sì, io voglio bene ai miei padroni, e certo anche essi me ne vogliono, a modo loro: siamo davvero come rami di diverse piante innestati nello stesso tronco; ma i padroni sono la quercia, io sono l’oleandro che un soffio di vento può rompere e portare via».

Un giorno egli disse al padrone: — O mi dài un cavallo, se vuoi che continui a far da cane a tuo nipote, o ti giuro che mi sdraio sotto il primo albero che trovo.

— Sdràiati pure, — rispose il vecchio Ara.

—Vedrai, lo farò, — insisté il servo, il quale ripeté il suo proposito anche in casa della sua vecchia amica.

— Che San Basilio mi aiuti, vedrai, non voglio più fare lo scemo. Domani mi sdrajerò sotto un albero: e che il piccolo prepotente vada all’inferno!

Infatti l’indomani Sidru disse ancora al vecchio padrone: — Me lo dài o no questo cavallo? Io sono stanco non ne posso più delle vostre pazzie, Benedetto Ara!

— Se non ne puoi più, ebbene appiccati, — rispose rudemente il vecchio.

Al solito, verso il tramonto, Basile partì e il servo lo seguì. Era una giornata calda e nuvolosa. Al di sopra delle montagne di un azzurro fosco, il sole calava fra grandi e immobili nuvole rosse che parevano enormi rami di corallo. Il cielo era tutto nero e rosso; nel silenzio di quel tramonto pauroso i fiori già appassiti, le erbe impallidite dal caldo, si piegavano fino a terra; le pecore tosate si sbandavano stanche fra le macchie, il cane lottava e guaiva contro un nugolo di mosche, e il corvo saltellava e gracchiava melanconicamente.

Sidru partì, col suo fido bastone fra le mani; ma appena oltrepassò la tanca dei padroni si buttò a sedere sotto un albero e col bastone minacciò la macchietta lontana di Basile, che si dileguava nera sullo sfondo rosso della campagna.

— Cammina pure, — disse a voce alta, — va, va, va al diavolo. Non è certo Sidru Calìa che quest’oggi ti verrà dietro come un cane.

Stette circa mezz’ora seduto così sotto l’albero; il sole sparve, le nuvole rosse si spensero, si fecero nere, d’un nero terreno, simili a carboni spenti: una tristezza infinita gravò sulla pianura.

Il vecchio scuoteva la testa e minacciava col bastone: ad un tratto si alzò e si avviò. Non sapeva perché, ma un’inquietudine profonda lo agitava; gli era parso di udire il grido di una civetta; ricordava la morte della povera Annica, la madre di Basile e pensava: «L’ho veduta nascere e morire, povero fiorellino; e al suo bambino, al povero Basile, ho sempre voluto bene come ad una mia creatura. Perché oggi l’ho abbandonato? Dopo tutto, siamo giusti, gli Ara mi vogliono bene, e mi tengono al loro servizio benché io non sia più buono a far niente.»

Intanto affrettava il passo, ma per quanto camminasse rapidamente non sperava più di raggiungere il piccolo padrone.

La sera calava, triste e fosca; circa a metà strada, Sidru doveva attraversare un sentiero, incassato fra due muriccie coperte di siepi. Benché fosse quasi buio, passando lungo il sentiero il servo s’accorse che in una delle siepi era stato praticato un varco, e che alcune piante erano cadute dal muro; un uomo doveva essere stato in agguato dietro la siepe.

Il vecchio servo si mise a correre: un sudore ghiacciato gli inumidì la fronte. Attraversò il sentiero, attraversò un’altra tanca e un’altra tanca ancora. Già in lontananza, al chiarore della luna piena che appariva fra due nuvole, si scorgeva il campanile del villaggio.

Senza speranza di ottener risposta, ma spinto da un impulso misterioso, Sidru accostò le mani alla bocca e cominciò a chiamare: — Basile! Basile!

Una voce rispose.

Allora il vecchio riprese la corsa affannosa: dopo un momento, nel silenzio intenso che lo circondava, oltre il rumore dei suoi passi e il soffio ansante del suo respiro, egli udì un lamento forzato, come il pianto d’un bimbo che esagera il suo dolore. E subito vide Basile, o meglio Basile vide lui e gli corse incontro e gli si gettò addosso.

Sidru lo strinse al suo petto ansante, e gli domandò senz’altro: — Non ti hanno fatto del male, no? — Sì, – piagnucolò il fanciullo, — mi ha gettato per terra, là, nel sentiero: voleva battermi perché mi tenevo aggrappato alla sella…

—Signore Iddio, Signore Iddio, — cominciò a gemere il vecchio, — dimmi tutto, e intanto corriamo, non perdiamo tempo, andiamo dal brigadiere. Ma quanti erano? Non li hai riconosciuti?

— Uno era, — disse Basile, riprendendo coraggio, — aveva uno straccio sul viso: non ha parlato; mi ha spinto, poi è montato lui, sul mio cavallo, ed è scomparso, di là… da quella parte, verso l’altro paese.

— Ma tu non lo hai riconosciuto? Era bassotto, vero, con la barba nera?

— Ti giuro che non l’ho riconosciuto, — gridò Basile, arrabbiandosi. — Sì, era bassotto. Ora vado subito a denuziarlo, lo farò arrestare e condannare. Ma tu dov’eri? perché non m’hai difeso? E allora perché ti hanno mandato? Il vecchio non rispose.

— Corriamo, — insisté Basile, — lo faremo raggiungere. — Non dubitare, il re lo raggiungerà.

Basile continuò a parlare; la sua voce tremava, la sua mano stringeva la mano del vecchio: di tanto in tanto sussultava tutto e ricominciava a piangere come un bambino.

 

«Oh» pensava il vecchio «mi pare di sognare. Io, io ho potuto tradire così i miei padroni? Eppure sapevo…..»

Arrivarono finalmente: trovarono la nonna sulla porta, circondata da quasi tutte le vicine.

— Ah, che paura, — disse la vecchia padrona. — pochi minuti fa è arrivato il cavallo, solo, con la sella ma senza bisaccia. Che è avvenuto? Credevo che Basile fosse caduto da cavallo.

— Fatemi il piacere, andatevene, — disse Sidru alle vicine. — Non è accaduto nulla: ci è soltanto scappato il cavallo. Via, — aggiunse, fingendo di scacciare le donne col bastone.

— Ma la bisaccia? La bisaccia? — gridò la padrona — Non aver paura, Pasqua Ara. La bisaccia è in salvo, così sia salva l’anima mia.

Entrarono, chiusero la porta.

— Senti, — disse il servo alla padrona, — Basile è stato derubato; io non ho fatto in tempo a soccorrerlo, m'era venuto male e m’ero sdraiato sotto un albero. Si vede che il ladro ha poi lasciato libero il cavallo, il quale ha ritrovato da sé la via ed è arrivato prima di noi. Io ho un sospetto; se tu mi prometti di non chiacchierare, io forse scoprirò il ladro, e se lo scopro lo denunzio subito alla giustizia, sia pure il mio migliore amico. Te lo giuro sulla mia coscienza.

La vecchia promise di non chiacchierare con le vicine e il servo uscì e s’avviò verso la casa dell’amica. Ma invece di entrare s’appiattò dietro la muriccia del cortile e attese.

Il villaggio taceva, la notte era afosa; di tanto in tanto la luna appariva fra le nuvole e illuminava i tetti coperti di erba, le straducole polverose.

Verso le dieci un uomo con un sacco sulle spalle si fermò davanti alla porta dell’amica di Sidru. Il vecchio servo riconobbe il figlio dell’amica e si sentì battere il cuore. S’alzò e s’avvicinò anch’egli alla porta.

— Buona notte, Testa di pietra; donde vieni? Che contiene quel sacco?

— Erba, — rispose l’altro.

— Ah, erba? — riprese il vecchio con voce bassa ma un po’ anelante. — Mi sembra troppo pesante, per essere erba. Fammi toccare. È duro: qui dentro c’è una bisaccia colma: la bisaccia che hai rubato al mio padrone. Senti, sei stato ben vile; lo hai derubato perché sapevi che era solo. Ma i carabinieri ti cercano.

Mentre egli parlava, Testa di pietra aveva deposto il sacco per terra: era un giovinotto basso, bruno, con una corta barba nera e il naso rincagnato: pareva un negro. Alle ultime parole del vecchio rinculò e senza aprir bocca si volse e scappò. I suoi passi risuonarono come quelli d’un cavallo in fuga.

Allora zio Sidru batté alla porta, e quando la sua amica aprì egli sollevò il sacco e lo mise dentro.

—Senti, — disse, — prima di conoscer te io avevo mangiato il pane ai miei padroni: per te, qualche volta li ho traditi, ma ora basta. Ho aperto gli occhi. Vado subito a denunziare tuo figlio.


Attività didattiche collegate:
  1. Riassumi il racconto che hai letto.
  2. Scegli una persona che compare nel racconto e inventa un'intervista da rivolgerle (prova a scrivere sia le domande che le risposte).
  3. Svolgi una ricerca su Grazia Deledda e presentala in un breve testo scritto.
  4. Scrivi un breve racconto utilizzando la stessa ambientazione e gli stessi personaggi del brano che hai letto.
  5. Continua il racconto che hai letto inventando un lieto fine.

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